Con il mix di audacia e cautela che caratterizza il suo modus operandi, il Mostro di Firenze ha sempre cercato di instradare gli inquirenti dove voleva. Principalmente in un modo: lasciando sulle scene del crimine, e non solo, bossoli e proiettili sparati dalla stessa arma, una calibro .22, probabilmente una Beretta[1].
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Gli esperti dell’FBI chiamati a redigerne un profilo nel 1989 osservavano che il serial killer avrebbe potuto facilmente cambiare pistola nel corso degli anni. Non farlo doveva essere stata una sua scelta precisa. Quale?

Molti si sono interrogati sulla genuinità delle prove che collegano il Mostro alle otto scene del crimine legate alla stessa pistola. Gli esperti però hanno dimostrato che i bossoli e i proiettili sono stati sparati dalla stessa arma utilizzata dal serial killer.
Tuttavia c’è un dettaglio, non banale, che riguarda uno degli otto casi e che è la principale fonte di dubbi. Si tratta delle presunte prove del delitto del 1968, caso ancora oggi non annoverato ufficialmente ai crimini del Mostro.
A differenza degli altri, il duplice omicidio del 1968 fu collegato 14 anni dopo i fatti, grazie a quella che è stata definita dall’autorità giudiziaria una “fortuita e inspiegabile combinazione“[2], ossia il ritrovamento di cinque bossoli e cinque proiettili nel fascicolo processuale dell’uomo che aveva confessato il delitto. Le prove si sarebbero dovute trovare nell’Ufficio Corpi di Reato, non nel fascicolo. Ciò implicava che la “custodia legale” era venuta meno, inficiandone il loro valore, dettaglio che venne tranquillamente ignorato.
Confronti, calcoli e test. Premesse
L’ipotesi del depistaggio, nata nei primi anni ’90, qui viene affrontata con una serie di novità. La metodica utilizzata è stata scientifica. Si basa su raffronti, consulenze, un’indagine statistica e alcune verifiche. Questa ricerca:
- accerta la fattibilità di una sostituzione delle prove del 1968;
- ne quantifica la probabilità.
Sono state riscontrate contraddizioni fra le prove del delitto del 1968 e quelle ritrovate nel fascicolo. A partire da queste discrepanze è stato effettuato il calcolo delle probabilità di un depistaggio, il cui valore situa a livelli alti, nell’intervallo 82,5 – 100%. Per sapere come è stata calcolato, bisogna scorrere la pagina fino al capitoletto “Probabilità“.
Subito dopo l’indagine statistica, c’è una ricostruzione dei fatti suffragata da test su come sia stato possibile al depistatore avere accesso al fascicolo penale, fabbricare le prove e sostituirle con le originali.
In conclusione, chi ha sostituito le prove del 1968 non può essere che il Mostro (o un suo complice), il quale, con il depistaggio, intendeva scagionarsi dai suoi veri crimini.
Prima di parlare di probabilità, test e ricostruzioni propongo un riassunto dei fatti principali che hanno portato al collegamento fra il Mostro e il delitto del 1968. Chi già li conosce, può farne a meno.

Storia di una manciata di prove
12 aprile 1973. Stefano Mele, reo confesso del duplice omicidio di sua moglie Barbara Locci e l’amante Antonio Lo Bianco viene condannato in via definitiva dalla Corte d’Appello di Perugia. Rimarrà in carcere fino alla primavera nel 1981.
I faldoni contenenti gli atti processuali, investigativi e tutto ciò che è scritto nero su bianco e fa parte del processo restano ancora per un anno alla cancelleria del Tribunale di Perugia. Tra di essi c’è anche la perizia balistica che indica le caratteristiche dell’arma e delle munizioni utilizzate negli omicidi: una pistola calibro .22, modello e marca non identificati, apparentemente “vecchia e logora”, e cartucce Winchester ramate.
1 aprile 1974. i faldoni e il loro contenuto vengono trasmessi a Firenze. Vi resteranno fino al 20 luglio 1982 circa, quando saranno prelevati dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Borgo Ognissanti, alla caccia di un possibile collegamento fra quel delitto e gli omicidi del Mostro.


Nasce il Mostro
166 giorni dopo la trasmissione degli atti del processo Mele a Firenze, sabato 14 settembre 1974, una coppia di adolescenti viene uccisa a colpi di calibro .22 e a coltellate in un campo vicino a Borgo San Lorenzo, nel Mugello. I fendenti post-mortem sul corpo della vittima femminile suggeriscono che l’autore sia un maniaco.
Nessuno degli investigatori che già ha indagato sul delitto del 1968, tra cui il futuro comandante del Nucleo Investigativo dei carabinieri di Firenze, il capitano Olinto Dell’Amico, mette in correlazione questo duplice omicidio con quello della coppia di amanti di sei anni prima. Non lo fa nemmeno il colonnello Innocenzo Zuntini, lo stesso perito balistico che ha esaminato bossoli e proiettili del delitto del 1968.
Anche nel 1974, l’arma utilizzata è in calibro .22 e il munizionamento Winchester ramato, ma, stavolta, le tracce rinvenute sui bossoli consentono al colonnello Zuntini di individuare facilmente marca e modello della pistola. E’ quasi certamente una Beretta della serie 70, scrive nella sua relazione finale.

Le differenze fra i due delitti sono numerose.
Nell’agguato del 1968, insieme alla coppia appartata in auto, c’era anche una terza persona, il figlioletto della donna, lasciato indenne dall’assassino. Nel primo caso, l’ambiente delle vittime, la testimonianza contraddittoria del marito, la stessa sopravvivenza del bambino indicavano che gli omicidi erano maturati nell’ambito delle relazioni sentimentali, se non familiari, della vittima femminile. Il movente più probabile era la gelosia. Nel 1984, i periti dell’Università di Modena incaricati dalla Procura, De Fazio-Galliani-Luberto, scrivono nella loro relazione criminologica che il delitto:
“…appare talmente privo di connotazioni abnormi da indurre a formulare l’ipotesi di un omicidio passionale (ipotesi dei resto subito avanzata dagli inquirenti, ed ampiamente suffragata dalle notizie inerenti alle abitudini e condizioni di vita, ai rapporti esistenziali, all’ambiente di appartenenza delle due vittime)”
Per gli stessi esperti, al contrario, nel 1974, l’omicida è stato mosso “da motivazioni sadico-sessuali“. Studia con attenzione il luogo dell’attacco, prepara con cura l’aggressione, spara, uccide il ragazzo e si avventa con il coltello sulla vittima femminile, posiziona il suo corpo sul prato, lo taglia, mette un ramo nella vagina e se ne va, portando con sé qualche oggetto. L’assassino, in questo caso, colpisce per il “piacere di uccidere”, seguendo un rituale preciso.

Il ritorno del maniaco
Passano sette anni. Il caso del 1974 è stato quasi dimenticato quando il 6 giunto 1981 una coppia di giovani viene uccisa nelle campagne vicino a Scandicci, colpita da una scarica di colpi della stessa arma che aveva ucciso i due ragazzi nel 1974. Il collegamento è pressoché immediato, perché anche stavolta ci sono segni evidenti di maniacalità. L’assassino ha infatti reciso e asportato il pube della vittima femminile. Ripeterà l’agguato su un’altra coppia il 22 ottobre successivo, a Calenzano, mentre un uomo è in carcere al suo posto.
L’anno successivo, torna la notte del 19 giugno 1982. Vicino a Montespertoli. Non ci sono escissioni stavolta, probabilmente perché non ha fatto in tempo. L’auto delle vittime, forse nel tentativo di una fuga, è finita in mezzo alla strada e poi giù in un fossetto. L’assassino si è dovuto dileguare in fretta, per non essere trovato.
Nel frattempo, la polizia indaga. Il PM Silvia Della Monica, che sarà destinataria dell’unico messaggio del Mostro, chiede ai carabinieri di verificare l’esistenza di fatti criminosi analoghi in Italia e all’estero a partire dal 1970.
Collegamento
Il 20 luglio 1982 appare un messaggio a firma del comando del Nucleo Investigativo dei carababinieri a pagina 9 de La Nazione, individuato dal blogger De Gothia molti anni più tardi. Il trafiletto, intitolato “Un appello dei carabinieri per il mostro” recita:
Un appello è rivolto dal comando del nucleo investigativo dei carabinieri di Borgo Ognissanti a una persona che ha dato più volte un contributo anonimo all’indagine sui delitti del maniaco, il cosiddetto “mostro”, perché si rimetta in contatto con loro.
L’uomo, che nella sua ultima lettera si è firmato “Un cittadino amico” e che ha scritto tre volte affermando di non rivelare la sua identità per non essere preso per mitomane, dovrebbe fornire di nuovo la sua collaborazione, magari anche solo telefonando al nucleo investigativo dei carabinieri.
Lo strano messaggio al Cittadino Amico si accompagna, nelle stesse ore, a uno strano ritrovamento.
Sulla scrivania del giudice istruttore Vincenzo Tricomi sono arrivati finalmente i faldoni che compongono il fascicolo del caso Mele. Li aveva chiesti quattro giorni prima al Tribunale di Perugia che, di rimando, gli ha fatto sapere che si dovrebbero trovare a Firenze.
All’interno di uno dei faldoni, forse graffettato alla perizia balistica, il giudice trova un sacchetto con cinque bossoli e cinque proiettili. Sono prove. Che fortuna… o forse no. A pensarci, infatti, non dovrebbero trovarsi lì, all’insaputa di tutti, fra le carte del processo, alla portata di avvocati difensori e imputato, ma sotto custodia nell’ufficio corpi di reato. Vent’anni più tardi, il PM Giuliano Mignini dirà[3]:
“Che nessuno, a Firenze, in Cassazione, a Perugia e, poi, ancora a Firenze, per altri otto anni circa, nessuno si sia accorto che al fascicolo processuale definito (sic) erano allegati i bossoli appartenenti ai proiettili utilizzati per un duplice omicidio, in aperta violazione delle disposizioni del codice, è un qualcosa che a menti critiche come quelle che si presumono in operatori del diritto non può non lasciare francamente increduli”
Almeno fino alla sentenza definitiva il fascicolo è stato visto da magistrati, polizia giudiziaria, personale del tribunale. Possibile che nessuno si sia accorto della presenza inopportuna delle prove? Purtroppo sì. Un insigne penalista milanese mi ha detto che non è così insolito trovare nei vecchi fascicoli processuali prove di piccole dimensioni come bossoli e proiettili. Si tratta ovviamente di casi “chiusi”, come quello di Mele.
In ogni caso, l’Autorità Giudiziaria fa esaminare le prove dai periti balistici, i quali confermano che sono del Mostro. Si deduce che il Mostro abbia ucciso nel 1968.
In questa concatenzione logica c’è una grave dimenticanza. Date le circostanze e il luogo del ritrovamento sarebbe stato necessario un confronto peritale fra le prove e la relazione balistica del 1968, al fine di avere la certezza che i bossoli e i proiettili trovati nel faldone fossero gli stessi. Ignorando questa verifica, gli investigatori si affidano a prove “non tracciate”.
Il collegamento con il 1968 rimarrà un segreto investigativo per pochi mesi e, quando verrà alla luce, saranno i carabinieri ad attribuirsene il merito[4].
Ci sono però due testimonianze che li contraddicono (prossime immagini) e che risultano più attendibili. Provengono infatti da chi conduce le indagini, il PM Silvia Della Monica e il Giudice Istruttore Vincenzo Tricomi, e risalgono allo stesso periodo in cui il collegamento era stato appena scoperto. Questi documenti, datati 20 agosto e 29 ottobre 1982 attribuiscono la scoperta dei carabinieri all’imbeccata di un anonimo. E’ lecito supporre che si tratti del Cittadino Amico.


Dove sono gli accertamenti sul “cittadino amico”?
(Capitolo aggiunto il 17 settembre 2022)
Nel 2022, un ricercatore del caso Mostro, Marco Aufiero, rende noto che nel 2019 la Procura ha accertato l’esistenza di una replica dei carabinieri alla richiesta di Della Monica. Gli agenti dell’Arma, nel 1982, trasmettono al magistrato una lettera che, tuttavia, non fa riferimento a Signa ma a un altro episodio. Forse Della Monica, informata dell’esistenza di una lettera sul ’68 da Tricomi, giudice competente per le indagini, ha equivocato il fatto che fosse indirizzata a lei?
Ciò che è probabile è che il 20 luglio 1982, quando viene pubblicato su La Nazione l’appello del comando dei carabinieri al “cittadino amico”, i carabinieri abbiano già visionato la copia della relazione balistica del ’68 conservata per legge dal perito. Sanno già che ci sono alcune corrispondenze fra i reperti di Signa e del caso Mostro, anche se non hanno ancora la certezza di un collegamento. Sicuramente hanno anche avvisato il giudice Tricomi.
Come mai, allora, non ci sono relazioni di servizio su questo accertamento? Perché mancano informative sul “cittadino amico”? Dove sono finite le sue lettere?
Forse la risposta è che molti dei carabinieri che investigano sul Mostro sono gli stessi che hanno svolto le indagini a Signa – anche allora sotto la guida dal colonnello Olinto Dell’Amico – e che, in questi anni, nessuno di loro ha mai pensato di spulciare il fascicolo su quel duplice omicidio. Per non sfigurare, o peggio, il comando decide che bisogna attribuire il merito dello spunto investigativo esclusivamente a un carabiniere e tagliare dalla ricostruzione dei fatti il “cittadino amico”. Così ecco il maresciallo Francesco Fiori, il quale affermerà in una dichiarazione testimoniale (senza giuramento) del 1986 di essersi ricordato di Signa di sua sponte nell’estate 1982 e di averne subito informato il comando del Nucleo Investigativo e il giudice Tricomi.
Esito
Al di là della versione ufficiale degli inquirenti sull’origine del collegamento, dopo sette anni di indagini meticolose che non hanno mai fermato il serial killer, il 13 dicembre 1989, tutti i sospettati del caso del 1968 vengono prosciolti dalle accuse. Questo delitto rimarrà escluso dalla lista degli omicidi del Mostro anche nei successivi procedimenti[6].
Il giudice Francesco Ferri, nelle motivazioni della sentenza d’appello del Processo Pacciani, fa due constatazioni importanti:
- Dal 1982, il Mostro ha continuato a uccidere mentre tutti i sospettati del 1968 venivano via via arrestati e/o messi sotto controllo;
- L’omicidio del 1968 ha un movente diverso e non collegabile ai delitti successivi.
Non è plausibile che l’autore dell’omicidio del 1968 fosse totalmente sconosciuto a Mele.
Non aveva senso attribuirsi il delitto di un ignoto che aveva lasciato incolume il figlio, che, per quanto piccolo (aveva cinque anni), era pur sempre un testimone.
Il complice di Mele, probabilmente, era uno degli uomini che lui stesso aveva indicato e che erano stati via via arrestati negli anni ’80. Che cosa era successo alla pistola? Prendendo per buone le prove trovate nel fascicolo processuale, doveva essere “passata di mano”. Era stata venduta, consegnata oppure rubata dal futuro serial killer.
Anche questa soluzione è abbastanza forzata. Rende infatti necessaria l’omertà di una persona se non di un intero gruppo finito in carcere al posto di un maniaco che commette crimini odiosi anche agli occhi dei comuni delinquenti.
Le prove indicano che il Mostro non ha commesso gli omicidi del 1968 e che il responabile degli omicidi di Signa non sapesse chi fosse il serial killer.
Ma se gli omicidi sono scollegati e lo sono anche gli autori dei crimini, come si spiega il mistero della pistola?

La sostituzione delle prove
Aurelio Mattei è un criminolgo che ha collaborato con il SISDE, il controspionaggio italiano, sul caso Mostro. E’ anche uno scrittore. Nel thriller “Coniglio il martedì” (Sperling & Kupfer, 1993), palesemente ispirato alle vicende del serial killer fiorentino, l’io narrante, l’assassino, si introduce con un inganno nell’ufficio corpi di reato di un tribunale, sostituendo bossoli e proiettili con delle repliche.
Il protagonista del libro di Mattei deve escogitare un modo per accedere alle prove perché, nel suo caso, sono sigillate e custodite nel luogo appropriato, cioè il “reparto prove”. Si è visto che quelle del 1968 non erano in questo ufficio, bensì conservate nel fascicolo processuale di Mele all’insaputa dell’autorità giudiziaria e alla portata di tutte le persone che lo hanno consultato. Dunque sarebbe stato più semplice a un depistatore reale, che non al protagonista di Mattei, sostituire le prove per avvallare un collegamento che non c’era.
Forse Mattei ha ritenuto la sua ipotesi troppo audace per essere ritenuta credibile dall’autorità, perciò ha deciso di romanzarla. Eppure è una delle eventualità rimaste. Qualcuno potrebbe avere sostituito le prove rinvenute nel fascicolo Mele. Quel qualcuno non è chiunque, perché i bossoli e i proiettili lasciati appartengono sicuramente al Mostro. Deve essere l’assassino o un suo complice.
Il serial killer di Mattei è un medico senza alcuna relazione diretta con il tribunale in cui va a sostituire le prove.
Il Mostro, invece, chi può essere?

Nel momento della loro collocazione nel fascicolo processuale di Mele, la “catena di custodia” delle prove era venuta meno. Per questo motivo, l’eventualità di una sostituzione di bossoli e proiettili doveva essere vagliata sin da subito, a prescindere da preconcetti e da ogni altra ipotesi. Molte persone, fra cui magistrati, poliziotti, cancellieri, avvocati e forse persino Mele avevano avuto sotto mano il faldone in cui sono stati trovati. E se fosse stato uno di loro a sostituirle?
Il proscioglimento del 1989 avrebbe dovuto condurre gli inquirenti al ritrovamento di sette anni prima e a verificare, finalmente, se i bossoli e proiettili trovati nel faldone corrispondessero a quelli descritti nella perizia del 1968.
Questa comparazione, però, nemmeno allora è stata effettuata.
Che dietro al collegamento con il delitto del 1968 ci sia un depistaggio, lo sospettaranno nei primi anni 2000 l’ex investigatore a capo delle indagini sul Mostro, Michele Giuttari, e il sostituto procuratore di Perugia, Giuliano Mignini, sulla base di una teoria del giornalista Tommaso D’Altilia che, ispirandosi a Mattei, sospettava l’esistenza di una cospirazione per attribuire al Mostro il delitto del 1968[4].
L’ipotesi del depistaggio verrà liquidata dai suoi detrattori istituzionali con la stessa leggerezza con cui sono state date per buone prove irreggolarmente conservate.

Verifiche
Riepilogando. Dopo essersi resi conto della presenza dei proiettili e dei bossoli nel faldone gli inquirenti avrebbero dovuto:
- ricostruire il percorso delle prove e avere una lista delle persone che avevano consultato il fascicolo Mele;
- confrontare la perizia balistica con le prove allegate, per verificare che corrispondessero.
Il primo punto è appannaggio esclusivo degli inquirenti. Sul secondo, anche un ricercatore con un po’ di nozioni balistiche, con il materiale a disposizione può verificare se le prove corrispondano o meno.
Per il confronto occorrono:
- la perizia effettuata nel 1968 sui bossoli e i proiettili trovati sulla scena del crimine;
- le macrofoto dei reperti trovati nel 1982 nel fascicolo Mele.
Ho iniziato a cercare la perizia, tre anni fa, consultando alcuni membri del forum “imostridifirenze” – Toxicity e il blogger Herny62. Per anni, questo documento è rimasto a impolverire nei cassetti di avvocati e poliziotti. Nel 2019, l’utente Paz! ha deciso di pubblicarla (qui una trascrizione) insieme alle macrofoto dei cinque proiettili (una delle immagini successive).
Anche se non della stessa qualità di quelle inserite in un video di Antonio Segnini (foto in basso), circolavano già alcune immagini dei bossoli trovati nel faldone, perciò era possibile finalmente verificare se “pazzo” era chi sospettava il depistaggio o chi si era affidato a prove incerte.

E’importante sottolineare che tutte queste foto ritraggono soltanto le prove trovate nel faldone del 1982. Non esiste infatti alcuna macrofoto dei reperti del 1968, perché all’epoca il perito non le effettuò.
Il confronto fra le descrizioni scritte di Zuntini risalenti al 1968 e le macrofoto scattate alle prove nel fascicolo è comunque sufficiente a capire se bossoli e proiettili rinvenuti corrispondano agli originali.
Le caratteristiche che devono corrispondere vanno dalle più banali (marca delle munizioni, tipologia) a quelle più particolari, cioè le deformazioni subite dai proiettili e le tracce impresse dalla pistola sui bossoli.
I principali meccanismi delle pistole automatiche che lasciano impronte sui bossoli sono: percussore, estrattore ed espulsore. La forma e il loro reciproco posizionamento evidenziati dai segni sul bossolo vengono sfruttati dagli esperti balistici per risalire a calibro dell’arma, marca e modello.
Tracce sui bossoli
Il percussore è il meccanismo che urtando la cartuccia innesca lo sparo. Quando la cartuccia è in canna e si preme il grilletto, il percussore picchia sul bossolo, facendo partire lo sparo. In quel momento, il carrello della pistola si muove in avanti lasciando una fessura per la fuoriuscita del bossolo scarico. Il bossolo viene agganciato dall’estrattore, mentre l’espulsore lo spinge fuori dalla pistola. Il proiettile, che viaggia a 300/400 metri al secondo, quasi sicuramente ha già raggiunto il bersaglio quando il bossolo tocca terra a circa un metro di distanza dallo sparatore.
Così come la posizione del bossolo sul terreno è utile per ricostruire la dinamica degli spari, i segni lasciati in pochi attimi da percussore, estrattore ed espulsore possono essere esaminati dagli esperti per individuare l’arma che ha sparato.
Se ha sparato la stessa arma i segni devono essere conformi tra loro. Per esempio, il percussore avrà la stessa forma e le tracce di espulsore ed estrattore si troveranno allo stesso angolo.
Questi dettagli non bastono per affermare che la pistola del 1968 è la stessa che ha sparato i bossoli trovati nel faldone, ma sono sufficienti per escluderlo.

Segni quasi irrilevabili
Per il confronto, prima di tutto, si verifica che marca delle munizioni e calibro della pistola corrispondano. Ok, combaciano. Dopo, si esamina cosa dice Zuntini nel 1968 relativamente al segno di percussore, espulsore ed estrattore.
Quello che salta immediatamente all’occhio, conoscendo cosa scriverà lo stesso perito sui bossoli del Mostro nel 1974, è la descrizione che fa delle tracce di espulsore ed estrattore.

Zuntini sa dove generalmente si trovano le impronte in questione su armi di calibro .22 (generalmente a ore 3 e ore 8), ma fatica a distinguerle anche con l’utilizzo di un microscopio ottico, tanto che non riesce a dire dove effettivamente si trovino. Scrive soltanto:
“sono quasi irrilevabili”
E’ un modo per dire “non sono riuscito a trovarli”, lo dimostra il fatto che il perito non riesca a individuare con certezza il tipo d’arma (nella Beretta del Mostro erano così marcati da renderla facilmente identificabile) e che non citi la presenza di queste tracce quando esclude che si tratti di un revolver (sprovvisto di espulsore ed estrattore, come osserverà qualche anno dopo).
Alcune armi, per esempio la Beretta 92FS calibro .22 utilizzata nei miei test, non lasciano segni molto rilevabili. In alcuni casi, senza microscopio elettronico, potrebbe essere difficile rintracciarli. Non è il caso, però, della pistola del Mostro che è all’origine delle presunte prove del 1968.
I bossoli trovati nel fascicolo Mele, quelli del serial killer, presentano infatti la caratteristica “unghiata” dell’espulsore visibile a occhio nudo a ore 9, come evidenziato nelle immagini in basso. Stessa caratteristica di quelli trovati sulle scene del crimine dal 1974 al 1985.
Come ha fatto Zuntini a non vederla?

Nella relazione balistica sul delitto del 1974, quando ha realmente di fronte i bossoli espulsi dalla pistola del Mostro, Zuntini fa osservazioni divergenti rispetto al 1968.
Scrive infatti:
“I cinque bossoli repertati hanno chiaramente impresso il segno dello espulsore”
“Sul fondello di ciascuno di essi è visibile il duplice segno dell’espulsore rilevabile alle ore 7 e alle 9 (rispetto al segno del percussore N.d.R)”
“Chiaramente impresso”, “visibile” e “rilevabile”: cosa c’è di compatibile fra l’impronta dell’espulsore della pistola del Mostro e quella “quasi irrilevabile” della vera pistola del 1968? I bossoli che Zuntini ha esaminato nel 1968 non collimano con quelli del Mostro trovati nel faldone e sulle altre scene del crimine.
E’ abbastanza irrilevante, invece, che in entrambi i casi la forma del percussore sia a sbarretta. La maggior parte delle armi in calibro .22, pistole e carabine, non solo le allora comuni Beretta della serie 70, hanno il percussore con questa forma. Per esempio, il Marlin che ha impresso le impronte sui bossoli in basso.

Nessun depistatore sarebbe stato così stupido da utilizzare una pistola con un percussore di altra forma, avendo a disposizione molte armi con percusori simili.
Allo stesso modo, è anche irrilevante il rigonfiamento sui bossoli che il perito nel 1968 attribuisce, sbagliando, a un difetto dell’arma e non, come invece è, alle cartucce superspeed quando vengono sparate da una pistola.
I proiettili
Quando un proiettile attraversa la canna di una pistola durante lo sparo rimangono impresse le impronte della rigatura. Si tratta di solchi, generalmente elicoidali, che servono a imprimere una rotazione al proiettile per stabilizzarne la direzione. Possono avere direzione destrorsa o sinistrorsa. Essere quattro, cinque, sei…
I proiettili del 1968 presentavano i segni di sei rigature destrorse come i proiettili trovati nel fascicolo Mele. Però, decine di pistole di marche differenti, compresa la Beretta, hanno canne con sei rigature destrorse ed è facile procurarsele.
Quello che bisogna andare a vedere, nelle descrizioni del 1968, sono le caratteristiche peculiari dei singoli proiettili (estratte qui), per verificare se differiscono in qualche modo.

I cinque proiettili catalogati da Zuntini in A, B, C, D, E, si dividono in proiettili con la punta schiacciata (A e B), quasi integra (C), frammento (D), schiacciata sul lato (E). Anche in questo caso, sembrano corrispondere ai proiettili trovati nel fascicolo Mele (immagine in alto).
Uno, forse due, di loro, però, presenta una grave incongruenza.
Zuntini afferma che il proiettile A mostra:
“nella parte ogivale deformata una sbavatura di metallo rivolta a destra cioè nel senso della rigatura”

Come si può notare nell’immagine, la sbavatura di metallo nella “parte ogivale” dello pseudo proiettile E (sottolineata in verde) oltre a non essere tecnicamente una “sbavatura”, bensì una scalfittura che non viene descritta, è quasi ortogonale alla rigatura (sottolineata in rosso) e non è rivolta a destra.
Sembra che il depistatore abbia cercato di ottenere la citata sbavatura premendo la punta di una lima sul metallo in senso ortagonale, con il risultato controproducente di produrre un’incisione di cui il perito non parla.
Il secondo problema riguarda uno dei due proiettili con la punta schiacciata, il proiettile A, che presenterebbe:
“incisioni abbastanza profonde con andamento assiale”
Come si può constatare nell’immagine in basso, a parte il solco della rigaturata, non c’è alcuna incisione sui due proiettili con la punta schiacciata trovati nel fascicolo Mele.
Per avere la conferma dell’incongruenza, però, bisognerebbe avere un’immagine dell’altro lato.

Consultazione di esperti
Immaginate se uno degli indagati del 1968 prosciolti venisse rimandato a giudizio. Il collegamento con il delitto di Signa diventerebbe determinante. Così anche le prove trovate nel fascicolo Mele.
Che cosa accadrà, in dibattimento, quando il giudice scoprirà che la catena di custodia di quei reperti è venuta meno e che le prove non collimano con quelle descritte nel 1968? Dirà “prendiamole per buone, è il perito del 1968 che ha sbagliato”? O che non si può emettere un verdetto di condanna sulla base di prove di origine incerta?
Per quanto quanto si può supporre come improbabile una tale eventualità, ho deciso di verificare l’ipotesi di una serie di errori del perito.
Ho deciso di consultare 11 esperti balistici italiani (per ragioni di privacy non pubblico i loro nomi) che, con il loro beneplacito, non sono stati edotti del contesto al fine di non influenzarli.
Ho sottoposto loro:
- alcune immagini delle prove trovate nel faldone;
- un quesito sulle immagini con risposte chiuse, fra le quali c’erano le descrizioni di Zuntini.
Gli esperti hanno risposto velocemente, confermando che le osservazioni che Zuntini aveva fatto erano molto semplici e, allo stesso tempo, molto difficili da sbagliare.
Ma quanto difficili?
Ho deciso di fare un’indagine statistica.

Probabilità
Le opzioni che spiegano le discrepanze fra perizia del 1968 e prove rinvenute nel fascicolo Mele sono solo due:
- una serie di errori del perito;
- un depistaggio.
Ho quindi formulato questa domanda di ricerca: quanto è probabile che un perito balistico commetta gli errori che vengono attribuiti a Zuntini per giustificare le discrepanze fra descrizioni del 1968 e prove trovate nel fascicolo Mele?
Premessa. Il codice di procedura penale è praticamente inalterato dagli anni ’30 del secolo scorso. Le pistole funzionano allo stesso modo di 50 anni fa e le relazioni balistiche su bossoli e proiettili si focalizzano come allora sui segni primari sul fondello. Si può quindi affermare che una ricerca statistica che ha per oggetto la probabilità che un perito balistico ha di sbagliare alcune osservazioni banali che non implicano l’uso di strumenti tecnologici avanzati può valere anche per Zuntini che scrisse la sua perizia nel 1968.
Zuntini era un perito del Pubblico Ministero. Ho pertanto richiesto ai tribunali italiani di ogni Regione gli elenchi con i nominativi degli esperti balistici iscritti agli albi dei periti e dei CTU.
Una dozzina di tribunali non ha risposto, perciò, dopo aver contato il numero di periti ottenuto, ho calcolato una stima della popolazione rimanente sulla base della media conosciuta (1,9 periti balistici per tribunale), per un totale definitivo di 295 esperti balistici accreditati. Con questo numero ho calcolato l’ampiezza del campione che ho estratto a sorte dall’elenco di nominativi ottenuti.
Nel caso avessi sorteggiato persone già consultate o che avevano preso parte alle indagini sul Mostro, le avrei escluse.
Dal consulto precedente, si poteva prevedere che pochi esperti avrebbero commesso gli errori di Zuntini, perciò ho preventivato un valore della deviazione standard pari al 5%. Ho quindi calcolato l’ampiezza del campione con livello di confidenza pari al 99%. Siccome volevo ridurre il campione al minimo, ho utilizzato un margine di errore poco al di sotto del 20% (17,5). In questo modo, per ottenere un calcolo delle probabilità, mi è bastato interrogare un campione di 10 esperti.
Il risultato è stato che:
- Zero esperti hanno definito “quasi irrilevabile” il segno dell’espulsore sul bossolo trovato nel faldone;
- Zero esperti hanno osservato incisioni da impatto sul proiettile A;
- Uno di loro ha definito “sbavatura parallela alla rigatura” la scalfittura del proiettile E;
- Nessuno ha commesso i tre presunti errori di Zuntini contemporaneamente.
Da questo risultato ne consegue che la probabilità che un esperto come Zuntini faccia tutti e tre gli errori a lui attribuiti è pari a zero con margine di errore 0-17.5%.
Il valore della probabilità più favorevole a una serie di errori commessi da Zuntini è dunque 17.5%, cifra destinata a scendere se si aumenta l’ampiezza del campione, e che è molto al di sotto dell’alternativa, cioè che il Mostro o un suo complice abbiano sostituito le prove con delle repliche.
In altre parole, come forse si poteva prevedere, è molto probabile che sia avvenuto un depistaggio.

Note
[1]Tutte gli esperti incaricati dalla Procura della Repubblica di Firenze sono concordi sulla marca dell’arma del Mostro. Il primo a individuarla è stato il colonnello d’artiglieria Innocenzo Zuntini nella sua relazione del 1974.
[2] Mario Rotella, sentenza di proscioglimento “pista sarda”, 13 dicembre 1989, p. 60.
[3] Paolo Micheli, sentenza di proscioglimento “Narducci”, motivazioni, 20 aprile 2010, p. 20.
[4] Mario Spezi, “L’indagine fu riaperta quasi per caso”, La Nazione, 27 gennaio 1984, p. 2.
[5] Sentenze di primo grado e d’appello del processo Pacciani e sentenze sui cosiddetti “Compagni di merende”. Le motivazioni si possono scaricare dal blog quattrocosesulmostro.
[6] Paolo Micheli, sentenza di proscioglimento “Narducci”, 20 aprile 2010, p. 20.
[7] Per esempio, viene citata in un’inserzione pubblicitaria sul Deseret News, 2 aprile 1970, p. 4A.
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