Segnalazioni anonime, omicidi che continuano, prove di origine incerta, una comparazione che ne dimostra le contraddizioni e per finire il calcolo delle probabilità che non lascia scampo… non bastano a convincere i seguaci più ostinati della “pista sarda” che bossoli e proiettili allegati al fascicolo Mele non sono quelli del delitto di Signa.
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Nonostante le dimostrazioni fornite nel precedente articolo, faticano ad accettere che qualcuno possa aver sostituito con delle repliche le prove del delitto del 1968 trovate 14 anni dopo i fatti in un faldone conservato nella cancelleria del Tribunale di Firenze, in quella che è stata definita dal giudice Mario Rotella “una fortuita e inspiegabile combinazione”.

Ci sono due certezze:
- la catena di custodia delle prove del 1968, l’unico sistema di tracciamento legale, è venuta meno;
- il confronto fra perizia del 1968 e prove allegati al fascicolo Mele evidenzia gravi incongruenze.
Come si è visto, il consulto con i periti balistici dell’articolo precedente e l‘indagine statistica per capire il motivo delle discrepanze fra la perizia del 1968 e le prove allegate ha indicato in modo chiaro l’elevata probabilità di una sostituzione dei reperti.
Non è una certezza, ma quasi.
Questa conclusione obbliga a fare i conti con l’identità di un serial killer diverso da quello che molti si sono immaginati. I reperti trovati nel fascicolo provengono infatti dalla sua pistola. Ciò significa che è stato lui o un suo complice a metterli nel fascicolo, un fatto difficile da spiegare per tutti coloro che sospettano qualcuno che non ne sarebbe stato in grado o che non era affiancato da complici.
A questo si aggiunge una perplessità. Che senso aveva per il Mostro collegare un omicidio che evidentemente non aveva commesso alla pistola che avrebbe usato nei suoi delitti?
Oltre a rispondere a questa domanda, documenterò con le fotografie dei test da me condotti come il serial killer potrebbe aver falsificato le prove, fornendo, attraverso un racconto, la mia personale ricostruzione dei fatti.

Accedere a un fascicolo penale
Un Mostro nelle istituzioni? Un assassino poliziotto? Un serial killer magistrato? Un cancelliere maniaco? Non era necessario essere una di queste figure per poter accedere al fascicolo del procedimento penale a carico di Stefano Mele, soprattutto dal 14 aprile 1973, quando il processo per dublice omicidio si è concluso con sentenza di condanna passata in giudicato.
Oggi come negli anni ’70, potevano accedere a un fascicolo penale gli imputati di quel caso, i loro difensori e chiunque ottenesse un’autorizzazione dal magistrato competente (giudice o PM). Il depistatore doveva semplicemente rientrare in una di queste categorie.
Non erano necessarie le doti di un prestigiatore o di un illusionista per sostituire le prove.
Qualcuno crede che le cancellerie dei tribunali siano inaccessibili uffici della pubblica amministrazione dove personale motivato da alti stipendi si dedica 24 ore su 24 alla sorveglianza dei fascicoli penali.
La realtà però è un’altra. Questa.

Nell’immagine sopra, un fascicolo penale come quello dove erano allegate i bossoli e i proiettili del 1968. Pensate davvero che, se qualcuno avesse collocato bossoli e proiettili in questo fascicolo, la fonte giornalistica che l’ha scattata non avrebbe potuto farne ciò che voleva, perfino buttarli nel cesso e tirare lo sciacquone?
Ricostruzione dei fatti
Fatte queste doverose premesse, segue una ricostruzione di come il depistaggio potrebbe essersi svolto.
Inizio primavera 1974. Mentre l’influenza della P2 di Licio Gelli si propaga nelle istituzioni, un investigatore militare statunitense di stanza in Toscana contatta un omologo italiano che frequenta l’ambiente giudiziario locale per lavoro. Il detective gli rivela che sta seguendo una pista per un’indagine nella base di Camp Darby a Pisa e vorrebbe consultare il fascicolo processuale su un duplice omicidio del 1968 avvenuto nei dintorni di Firenze. Erano implicati dei sardi. “Ne ho sentito parlare”. Non gli dice che lo ha saputo facendo una ricerca in una biblioteca, setacciando vecchi giornali in cerca di notizie su omicidi come quello.
Dopo qualche giorno, il suo interlocutore gli risponde che quel processo si è concluso nel 1973 e che il fascicolo si trova nella cancelleria del Tribunale di Perugia. Ha già chiesto la trasmissione degli atti e delle prova a Firenze, che verrà effettuata il 1 aprile 1974.
Su autorizzazione del magistrato competente, il detective americano si reca al Palazzo di Giustizia del capoluogo toscano, dove ha un appuntamento con il suo interlocutore. Bevono insieme un caffè, poi si recano in cancelleria, dove viene loro consegnato il primo faldone del fascicolo, contenente la relazione balistica, il rapporto sugli omicidi e altro materiale.
L’interlocutore lascia il detective a uno dei tavoli della sala lettura, con il faldone da consultare.

Il detective estrae dal faldone un fascicolo intestato alla “Legione territoriale carabinieri di Firenze”. Legge il titolo: “Rapporto giudiziario relativo alla denuncia in stato di arresto di Mele Stefano…”.
Dopo un’ora di lettura, decide di fermarsi.
Dove si trovava la notte del 21 agosto 1968, quando quella coppia era stata assassinata vicino a Firenze? Riecheggiano nella sua memoria il suono dei mortai e delle bombe sganciate dai B52 mentre lui e i suoi uomini si nascondevano dentro buche scavate nella terra, in un paese molto distante.
Mentre estrae un nuovo plico dal faldone, un suono metallico sul pavimento. Qualcosa è caduto.
“Che cos’è?”
Raccoglie il sacchetto. Sono bossoli e proiettili.
“Come gli è venuto in mente di lasciarli qui dentro?”. La risposta che il detective non sa è che qualche volta, alla fine di un processo, le prove di piccole dimensioni vengono lasciate nel fascicolo processuale dell’imputato.
Il detective ripone il sacchetto nel faldone e legge la perizia balistica attentamente.
Dopo circa mezz’ora si è fatto un’idea chiara.
“L’arma del delitto non è stata rinvenuta”, constata. “Potrei trovare una pistola simile a quella che ha sparato e scambiare le prove.”
Si guarda attorno. I cancellieri non gli prestano la minima attenzione.
Una pistola affidabile
L’arma del 1968 è una calibro .22 con sei rigature destrorse. L’investigatore americano sa già che può scegliere tra svariate pistole con queste caratteristiche. Per ragioni di prudenza decide di ignorare le conclusioni del perito che la definiscono “vecchia e logora“. Non andrà mai a sparare con una pistola inaffidabile.
Sfoglia un catalogo delle armi. La scelta cade su una Beretta della serie 70. E’ abbastanza diffusa, affidabile e si vende anche negli Stati Uniti[1].
L’investigatore sa che un soldato di stanza in Italia può importare dall’estero armi di piccolo calibro come una .22 nel bagaglio da stiva degli aerei commerciali oppure, tramite l’esercito, con le forniture di casa. E’ permesso detenere le calibro .22 negli alloggi. Registrarle presso il Provost Marshal locale entro tre giorni dall’arrivo nella base è l’unico adempimento prescritto[8].
“Il Provost Marshal è un autorità militare statunitense. Gli italiani non sapranno dell’esistenza di questa pistola.”

L’investigatore, prossimo al congedo, chiede di trascorrere una licenza di tre settimane con la sua famiglia negli Stati Uniti tra la fine di gennaio e metà febbraio del 1974. Riesce a ottenerla.
Lascia moglie e figli dai suoi genitori per qualche giorno, mentre per qualche giorno va a trovare quel suo ex collega che ora abita a Santa Rosa e che una sera, a cena, gli racconta di alcune autostoppiste uccise dalle sue parti.
“Qualcuno dice che sia Zodiac”, gli confida l’amico.
Il detective torna in albergo. La sera dopo guarda il film “L’Esorcista” e spedisce una lettera a vecchie conoscenze di San Francisco. Nella lettera ha disegnato un simbolo che ha visto in un ritaglio di giornale sugli omicidi delle autostoppiste. Glielo ha mostrato l’amico.
“Non c’ero nemmeno lì. Vediamo se me lo attribuite…”.

Il detective torna a casa e, nel rispetto del Gun Control Act e delle regole dello stato, compra una Beretta Jaguar usata. Forse la porta con sé nel bagaglio in aereo o forse la spedisce tramite l’esercito. Una volta rientrato in Italia, potrebbe decidere di non registrarla.
Il detective andrà in congedo a giugno per diventare un tecnico dell’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia. Chi verrà a contestargli la mancata denuncia?
Quale che sia la sua decisione, quella pistola non risulterà alle autorità italiane.
Tra l’altro non corre alcun rischio, perché il suo futuro alloggio è una pertinenza della missione americana in Italia, proprietà del demanio concessa in perpetuo al governo americano.
“Nessun italiano oserà mai perquisirla”.

La duplicazione delle prove
Quello che all’investigatore militare serve ora sono munizioni Winchester .22 superspeed che vendono in qualsiasi armeria[2].
All’epoca queste munizioni avevano la lettera “H” impressa sul fondello dei bossoli.
Affinché la sostituzione delle prove non venga scoperta, il detective deve riprodurre fedelmente, nel limite del possibile, i cinque proiettili descritti nel 1968.
Riepilogando: due con la punta schiacciata (A e B), uno con la punta quasi integra (C), un frammento (D) e uno con la punta schiacciata sul lato (E).
Se andasse al poligono a sparare contro un bersaglio fisso non otterrebbe che frammenti piatti come quelli nella foto sotto. Sono utili solo per la sostituzione di D.

L’investigatore non ha bisogno di riflettere molto sul da farsi.
Decide di andare al Post Exchange della base e chiedere della gelatina alimentare. Deve essere abbastanza tenace. Se non ce l’hanno, può sempre acquistarla altrove.

Gli occorreranno anche qualche padella, del pentolame e una lamiera. Se non le ha a casa, può trovarle in campagna o in discarica.

Tornato all’alloggio con 1 kg di gelatina in polvere, procede con la ricetta.
In una pentola capiente versa tutta la gelatina in polvere e 9 litri d’acqua. Inizia a mescolare. Quando è sciolta, accende il fornello.
Continua a mescolare. Prima che raggiunga il bollore, spegne il fuoco e versa in una ciotola a forma di parallelepipido, con una lunghezza di circa 50 cm.
Dopo 10 ore in frigorifero, la gelatina sarà pronta.

Il giorno successivo, il detective prende la forma di gelatina, il pentolamen, la lamiera e si reca al poligono di tiro.
Sposta un tavolino davanti ai bersagli, ci appoggia sopra la gelatina. Poi, si allontana qualche metro, carica la pistola, mira e inizia a sparare alla gelatina.

Il proiettile superspeed raggiunge una velocità vicina ai 400 metri al secondo, forando lamiere di metallo e padelle, ma basta un blocco di gelatina di 10 kg per fermarlo.
Alcuni proiettili riescono a trapassarlo, come si vede in questo video, ma sono senza più spinta e bastano un paio di pantaloni per bloccarli.

Con questo trucco, si ottengono proiettili quasi del tutto integri e il detective ricava facilmente il sostituto del proiettile C.
Gli restano il frammento D (ha l’imbarazzo della scelta) e i due proiettili schiacciati in punta e quello ammaccatto di lato.
La lamiera e il pentolame servono per questi ultimi tre proiettili. Bisogna posizionarli davanti alla gelatina e spararare, così il proiettile si deformerà impattando sulla superficie metallica, prima di forarla ed essere catturato dalla gelatina.

Al detective occorrerà un po’ di tempo per avere i proiettili che gli servono. Dovrà provare e riprovare, prima di essere soddisfatto del risultato.
Qualcuno, probabilmente, avrà bisogno di un’aggiustatina.

Una volta ottenuti i proiettili sostitutivi, il detective si dedica alla parte più facile, i bossoli.
Il suo è un errore, ma è davvero difficile rendersene conto.
Si china e, fra le decine dei bossoli caduti sul terreno mentre sparava, ne raccoglie cinque.
Ora ha le prove che gli servono per collegare la sua pistola al delitto del 1968, quelle che gli investigatori troveranno nel fascicolo Mele.
Non gli resta che tornare in tribunale e sostituire le originali con le repliche ottenute con la sua pistola.

Qual è stato l’errore del detective? Aver aspettato prima di raccogliere i bossoli dal terreno.
Per produrre i proiettili falsi, non ha utilizzato soltanto 10 cartucce come quelle sparate dall’assassino di Signa. Doveva essere certo di avere i migliori esemplari per la sostituzione, perciò è arrivato ad aprire una terza scatola da 50. L’assassino del 1968 ne aveva avuto bisogno di una soltanto, al massimo due, se stavano per finirel cartucce .
Quando il detective ha raccolto da terra i cinque bossoli che gli servivano per la sostituzione, ha mischiato i bossoli delle scatole da cui aveva preso le cartucce.
Non poteva prevedere che, 48 anni dopo, il blogger Segnini sarebbe andato a controllare la forma delle H sul fondello del bossolo, accorgendosi che avevano tutte una forma diversa, cioè che appartenevano a diverse scatole.
Perché mai l’assassino di Signa per riempire il suo caricatore da 10 colpi avrebbe usato cartucce di scatole diverse?
La soluzione dell’enigma è che i bossoli nel fascicolo Mele non sono stati sparati a Signa, ma raccolti senza distinzione dal terreno del poligono di tiro dove il depistatore, cioè il Mostro, ha sparato decine di colpi utilizzando più di una scatola.

Perché un depistaggio?
Perché un serial killer già celebre e ricercato in madre patria per omicidi di coppie appartate dovrebbe cercare di coprire le sue tracce prima di stabilirsi in un’altra nazione e continuare a uccidere?
Perché gli piace la fama ma non vuole essere scoperto.
L’investigatore è quel serial killer e il collegamento con Signa è la sua garanzia di impunità.
Lui nel 1968 non c’era.

Una volta effettuata la sostituzione, l’assassino ha a disposizione un’arma non registrata dalle autorità italiane e falsamente collegata a un omicidio per cui ha un alibi da esibire. Dall’estate del 1974, inoltre, la custodisce in un luogo che le autorità italiane non perquisiranno mai, casa sua, che sorge su un terreno concesso in perpetuo al Governo americano.
L’unico pericolo che corre è che qualcuno faccia il collegamento troppo presto e si ricordino della sua visita in tribunale. Per questo motivo, usa la pistola una volta sola, il 14 settembre 1974, e si ferma per qualche anno. Ha smesso anche di uccidere? Probabilmente no.
Quando l’ex detective ricomincia a utilizzare la pistola nel 1981, tutti si sono dimenticati della sua visita in tribunale di sette anni prima. Al terzo agguato, nel 1982, però, il ragazzo riesce a spostare l’auto e lui rischia di farsi prendere.
Il PM Silvia Della Monica cerca di imbrogliarlo, facendo credere che il ragazzo abbia detto qualcosa ai soccorritori prima di morire.
Nell’ex detective monta la rabbia. “Non sanno niente di me, poveri allocchi“.
Spedisce tre lettere, indirizzate ai carabinieri, per segnalare il falso collegamento. “Come mi sono firmato nel 1974?”

Note
[1] Department of the Army, Italy, facts you need to know, GPO, giugno 1974, p. 28.
[2] Naturalmente anche negli Stati Uniti. Vedasi questa inserzione pubblicitaria su The Vincennes Sun-Commercial, 18 marzo 1970, p. 15.
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